Il goal della vita

Il goal della vita

 

I ragazzini giocavano tranquillamente nella piazza del paese, in uno slargo di ghiaia, circolare, con panchine di pietra ai quattro angoli. Le panchine erano molto comode per essere utilizzate come porte.

David era un bambino dai capelli leggermente lunghi e dagli occhi vispi. Bassino, dimostrava certamente meno dei suoi dieci anni, come pure Enzo, secco secco e coi capelli cortissimi pieni di gel che se ne restavano dritti come gli aculei di un porcospino. Però a calcio erano bravi, tra i migliori del paese fra quelli della loro età, e comunque certamente più forti degli altri due che condividevano con loro quella mattinata di pallone, e cioè Nicola, il figlio del farmacista, tanto alto quanto scoordinato nei movimenti, e Antonio, inevitabilmente detto Palletta per il suo fisico tondeggiante.

Come sempre è accaduto, accade e accadrà in situazioni analoghe, i due più forti si erano accollati ciascuno uno degli altri più scarsi. Il compito di Antonio e Nicola era per forza di cose limitato al puro contenimento, anche se solo quando riuscivano a star dietro al pallone, un vecchio leggendario Super Santos di plastica arancione, pronto a cambiare direzione a ogni alito di vento, dalle traiettorie indecifrabili non appena si distaccava dal terreno, quasi che fosse riempito di elio e diventasse più leggero dell’aria stessa. Un pallone che tutti i bambini del mondo hanno posseduto almeno una volta nella loro vita, anzi spesso più di una, visto che l’incapacità di mantenere sempre la medesima direzione era seconda solo alla facilità a bucarsi contro qualsiasi oggetto vagamente appuntito, o anche un poco arrotondato, e comunque non perfettamente piatto, a cui si aggiungeva una predisposizione ammirevole nel perdere il valvolino. Dal canto suo il Super Santos possedeva la qualità di costare solo duemila lire in qualsiasi merceria, supermercato, edicola e, a volte, persino bar.

Nicola era in squadra con David, come per una legge del contrappasso che volesse in qualche modo bilanciare le loro altezze tanto differenti. Quando Enzo avanzava verso la panchina che valeva come porta, Nicola cercava di allungare tutti i suoi arti in quella buffa maniera che è propria delle persone molto alte e le fa assomigliare a dei pupazzi snodabili. Ma per quanto riuscisse a estendere le gambe nella direzione in cui Enzo aveva deciso di dribblarlo non riusciva mai a fermarlo e nemmeno a rallentarlo, solo lo costringeva a fare un giro più lungo prima di andare a segnare. Se si portava in attacco invece David non gli passava mai la palla, ma se la perdeva dovevano correre entrambi in difesa. Con le sue lunghe leve arrivava prima di tutti ma poi, scoordinato com’era, non faceva comunque in tempo a sistemarsi in una posizione decente per coprire lo specchio della porta.

Per Palletta le cose funzionavano più o meno in maniera analoga, solo che non avendo arti particolarmente sviluppati da poter allungare in maniera utile alla causa, quando David avanzava palla al piede lui indietreggiava fin quasi a sedersi sulla panchina-porta, e l’altro bambino gli arrivava sino a un metro di distanza prima di tirare e segnare, spesso facendogli passare la palla tra le gambe. Se per caso andava in attacco Enzo non gliela appoggiava mai, e lui non se ne rammaricava nemmeno troppo, perché tanto sapeva che l’avrebbe persa subito o avrebbe sbagliato il passaggio di ritorno, e allora Enzo si sarebbe arrabbiato e gli avrebbe gridato contro.

A volte Enzo perdeva palla da solo, oppure tirava fuori, e allora non poteva prendersela con lui, ma ugualmente Palletta era costretto a correre verso la propria panchina-porta trasportando per il campo la sua massa cicciosa, ingobbendosi nell’inseguire un avversario che non avrebbe mai raggiunto se non mentre questi tornava indietro dopo aver depositato la palla in goal.

Comunque, a parte queste malinconiche considerazioni del triste destino che tocca agli scarpari, i quattro si divertivano come pazzi. Anche David e Enzo che parevano incazzati e gridavano in continuazione. Erano i primi di settembre, la scuola sarebbe ricominciata di lì a poco e il desiderio di allontanare questo pensiero, che forse gli avrebbe fatto trovare interessante persino lavare i piatti dopo pranzo, li portava inconsciamente a godersela di più.

A dir la verità qualcuno si lamentava. Il vigile aveva detto che non si poteva giocare a pallone nella piazza, perché si rischiava di colpire le altre persone. Una signora con il passeggino aveva chiesto di non far rumore per non svegliare il suo bambino. Un signore di mezza età voleva leggere in tranquillità il giornale. Lo spazzino li aveva avvertiti che se una pallonata avesse disperso le foglie che aveva raccolto per loro sarebbero stati guai. Una vecchina su una sedia a dondolo, affacciata a un balcone, aveva detto anche lei qualche parola incomprensibile sulla gioventù moderna. Il padre di Nicola aveva chiesto al figlio di dare una mano in negozio.

Ma tutto questo non importava molto ai quattro bambini, erano davvero troppo concentrati sulla partita per starsi a preoccupare di quanto blateravano gli adulti. Al massimo a Nicola e Palletta interessava non subire i rimbrotti dei rispettivi compagni di squadra, mentre Enzo e David volevano ribadire la loro superiorità di piccoli talenti, anche se quella partita non sarebbe risultata in nessun almanacco o albo d’oro, e anzi sarebbe stata dimenticata in poche ore, presumibilmente già dopo pranzo.

La sfida veleggiava sul dodici a nove o sul dodici a dieci, a seconda dei punti di vista, in favore della squadra di David e Nicola. Capitava a volte di smarrire dei goal o trovarsene in più in questi match dal punteggio abbondante e disputati senza l’ausilio di membri della federazione o almeno di un pallottoliere.

Fu allora che, in un’azione di contropiede, David aveva tirato a botta sicura e la palla era passata tra le mani incerte di Palletta, poco efficace pure come portiere volante, andando a sbattere contro l’albero che ombreggiava la panchina e, da lì, era schizzata in mezzo alla strada fino a rotolare dall’altra parte della piazza.

Iniziò un’animata discussione per stabilire se fosse goal o meno, e solo dopo qualche minuto, e senza che la rete venisse convalidata, i quattro si ricordarono di dover andare a prendere il pallone dall’altro lato della strada. Si discusse anche su quello. Enzo e Palletta sostenevano che chi aveva tirato doveva andare a recuperare la sfera, come da regolamento internazionale, mentre David si difendeva che non era la sua squadra a dover battere la rimessa in gioco e quindi se la dovevano sbrigare loro. Alla fine però David si dovette inchinare alle convenzioni che imperversavano nei milioni di campi improvvisati in tutto il mondo, e si avviò brontolando a raccogliere il pallone. Il Super Santos si era fermato su una zolla d’erba lievemente rialzata, e al ragazzino dagli occhi vispi quello parve un segno da non lasciar cadere.

“Ora crosso!” gridò ai compagni di gioco dall’altra parte della strada.

Quella era chiaramente un’azione a gioco fermo, ma a nessuno sarebbe dispiaciuto realizzare una marcatura anche in un’occasione del genere. Palletta si sistemò in porta, aprendo le braccia e cercando la concentrazione. Nicola si piazzò in mezzo, pronto a colpire di testa. Enzo gli si mise dietro, sicuro che tanto non l’avrebbe mai colpita, sebbene fosse tanto più alto di lui.

David indietreggiò di quattro o cinque piccoli passi, e si fermò poggiando quasi tutto il peso del corpo sul piede d’appoggio, il sinistro, lasciando il destro, con cui avrebbe calciato il pallone, a trascinarsi, come a raschiare il terreno.

Vista la scena, il cameriere del bar sulla piazza, approfittando di un momento in cui non c’erano clienti da servire ai tavoli, prese a correre come un pazzo verso l’immaginaria area di rigore dove sarebbe giunto il Super Santos. Aveva già diciassette anni e ogni tanto gli piaceva fare lo scemo o comunque rompere un po’ i ragazzini.

“A me! A me!” gridò arrivando in mocassini, pantaloni neri, camicia bianca e il taccuino delle ordinazioni in mano.

Il titolare del bar uscì anche lui, per rimproverare e portare indietro il cameriere. Ma quando questi gli disse di aspettare un attimo, perché voleva segnare sul cross, l'uomo sulla sessantina si ricordò che erano una ventina d’anni che appunto non segnava su un cross, e di essere stato forte una volta, e che in effetti non gli sarebbe dispiaciuto realizzarlo lui, quel goal.

Un turista inglese, capelli rossi e pancia media da bevitore di birra di mezza età, stava cercando invano di ordinare due cappuccini al bancone quando assistette a questa scena. Del resto non c'era più nessuno che potesse servirlo, nel bar. Allora mollò lì la moglie e corse sorridendo verso l’area immaginaria, per quanto un po’ impacciato dagli zoccoli da mare che indossava.

Lo spazzino lanciò via la scopa e arrivò con aria decisa, cominciando a muovere le braccia per far segno a David di passarlo a lui, il pallone arancione. Il signore col giornale piegò il quotidiano infilandoselo in tasca e, pur mantenendo un'aria compita, si diresse camminando verso l'ormai numeroso gruppetto. Rimase un poco distante dagli altri, perché non voleva mischiarsi a tutta quella confusione, ma si vedeva che era pronto ad approfittare di un eventuale rimpallo.

Due pensionati che stavano giocando a carte interruppero la loro partita di briscola per assistere allo svolgimento dell’azione. Il garzone del pasticciere scese in fretta dal furgoncino e andò a sistemarsi in mezzo all’area, facendosi largo a spintoni e gomitate tra quelli che volevano tenere la posizione, ma lui era avvantaggiato dall’età e da un fisico atletico.

Al vigile parve poco consono al proprio ruolo istituzionale partecipare a quel gioco da bambini, ma fece cenno a David che avrebbe dato lui il fischio d’inizio per l’azione. Al bambino dall’altra parte della strada parve un po’ strano tutto quell’assembramento di persone che si accalcavano in uno spiazzo ghiaioso di pochi metri quadri, e anzi altri ne stavano arrivando, alla ricerca del goal della vita.

In ogni caso si sentì responsabilizzato da quella partecipazione numerosa, e pensò che avrebbe fatto davvero una brutta figura se il suo cross fosse stato sbagliato, troppo alto o troppo basso, o peggio ancora se non fosse riuscito a superare la strada o avesse colpito un albero o un lampione.

Quando il vigile fischiò l’immaginaria area era ormai intasata da parecchie persone che avrebbero pagato di tasca propria per provare l’incredibile gioia di buttare un pallone di plastica contro una panchina, in modo da ritornare bambini per almeno alcuni secondi.

David si concentrò e colpì di collo pieno, con tutta la forza che aveva in corpo. Quando vide il pallone che arrivava, tremendamente leggero, il vigile dimenticò il ruolo pubblico che ricopriva per gettarsi a capofitto verso l’area, ma ormai era troppo tardi per poter sperare di tirare verso la porta.

Il cameriere del bar e un operaio appena sceso da un’impalcatura posta a poche decine di metri di distanza andarono per colpire di testa nello stesso punto, ma la traiettoria immaginifica del Super Santos li ingannò, modificandosi di poco quando quelli già se lo sentivano sulla fronte. L’operaio riuscì però a spizzare il pallone, praticamente con la punta dei capelli, e questo mise fuori tempo il garzone del pasticciere che si stava esibendo in una spettacolare e plastica mezza rovesciata. Forte della sua bravura a calcio da adolescente, si poteva permettere un gesto tecnico di tale portata, ma fu fregato da quel piccolo tocco e non gli rimase altro che ricadere pesantemente a terra.

In mezzo all’area si susseguirono lisci più o meno clamorosi e goffi tentativi di impattare la sfera, nello sforzo di sospingerla in qualche modo e con qualsiasi parte del corpo, anche le meno nobili, verso la porta-panchina.

Alla fine il Super Santos carambolò fra i piedi di Nicola, il figlio del farmacista che, alquanto sorpreso dall’accaduto e poco avvezzo a ritrovarsi col pallone in suo possesso, specie se a un metro dalla porta, tirò alla meglio, per quanto gli consentissero la situazione e le sue limitate doti di calciatore. Il tiro finì giusto giusto contro uno stinco di Palletta che, senza essersi mosso di un centimetro, fece il suo dovere di estremo difensore.

Il rimbalzo tornò lento verso Nicola e, mentre tutti gli altri si stavano avventando su di lui per rubargli la palla, ebbe il tempo di stopparla e, vistosi venire incontro Palletta deciso a rinviare, con un ultimo sforzo riuscì a tirare di punta. Così, non molto elegante ma efficace, evitò sia il portiere che gli altri aspiranti marcatori, e vide il Super Santos che si infilava sotto il sedile della panchina per ricomparire nell’aiuola dietro, forse rovinando qualche fiore ma indiscutibilmente in goal.

Mentre alcuni imprecavano, altri si mettevano le mani nei capelli e altri ancora tornavano alle rispettive occupazioni, Nicola alzò le braccia al cielo e prese a esultare correndo per tutta la piazza, con i lineamenti quasi sfigurati dalla gioia.

 

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