Vedermi coi tuoi occhi

Vedermi coi tuoi occhi

 

Andai a metterle una moneta nella cornucopia. Una delle mie, un obolo d’argento, affinché parlasse.

Lei era la dea della fortuna. Di pietra bianca, invecchiata dalla pioggia e dal sole.

Si erano dimenticati di bendarla. Gli occhi di pietra seguivano chiunque la guardasse. Era meglio così. Già doveva rimanere immobile, se fosse stata anche al buio la sua pena sarebbe stata infinita. La moneta tintinnò sulla pietra e cadde dal buco opposto della cornucopia, finì nell’acqua con un plic, e scese fino ai piedi della statua.

Le chiesi di raccontarmi ciò che aveva sentito. Lei cominciò a enunciare persone, le loro storie, i loro desideri espressi nel lancio di una moneta ai suoi piedi.

Lei, poverina, non poteva esaudirli.

Io sì. Se avessi voluto, ovviamente.

Alcune cose devono andare in un certo modo, sono equilibri. Altre invece, perché non cambiarle?

La statua di pietra mi svelò i suoi segreti. Raccontò di tutte le voci che aveva udito nell’ultimo anno.

E io la ascoltai.

 

Vorrei vedermi coi tuoi occhi

E lo pensavo davvero mentre premevo invio nel messaggio. Thomas aveva quel modo di guardarmi particolare. Non era malizia, non era affetto, non era bramosia.

Aveva quello sguardo con cui ti sentivi abbracciare. Eri perfetta in quello sguardo. C’era un bene, un bene più profondo del bene. Come se dal suo silenzio quello sguardo parlasse comunque.

Io parlo in musica, mi aveva confidato una volta Tom. Effettivamente, con la vita che facevo, mi sentivo spesso una gitana, che ballava scalza a ritmo di liuto e tamburelli. Mi sarebbe piaciuto ballare a tempo con la sua musica.

Ecco, quel suo sguardo, quello con cui mi sentivo abbracciare, mi ricordava una canzone dolcissima che diceva circa così, o almeno, questo era quello che capivo nel tradurre da sola dall’inglese:

“Si ferma l’orologio.

Dovresti vedere il modo in cui la luce danza nelle tue iridi,

Un milione di colori di nocciola, oro e rosso riflessi nel vetro

La domenica mattina sta svanendo, come il fumo del caffè.

Il sole è solo un riflesso nelle pozzanghere lontane

I miei occhi sono di nuovo catturati nel tuo sguardo.”

Beh, in inglese suonava molto meglio…

 

Quello sguardo sapeva di casa e di un amore che andava oltre quello fisico. Oltre al tempo e alla distanza. Non siamo mai stati insieme, non ci siamo mai sfiorati. Eppure, in quello sguardo, c’era tutto quello che non era mai stato.

Non gliene avevo mai parlato. Perché a me andava bene così. E anche perché in fondo come amici funzioniamo da più di vent’anni. Ma quello sguardo me lo sono sempre goduto. L’ho sempre sentito. Magari è solo la mia immaginazione. In ogni caso, è un’illusione che non voglio toccare, potrebbe rompersi. Se gliene parlassi, e non fosse vero, io stessa andrei in frantumi.

Lo andavo sempre a trovare io. Lui aveva figli e famiglia. Sua moglie mi piaceva, era una a posto. Non volevo farle alcun dispetto, Tom era suo e solo suo e mai lo avrei toccato. Eravamo amici. E non avevo nulla da nascondere.

Se non che, in un momento come questo, quello sguardo aveva il potere di tenermi insieme.

Mi rispose alla sera.

Come ti vedi?

Non avevo una risposta pronta. E anche se l’avessi avuta non l’avrei scritta in un messaggio. Il vero problema, comunque, non era come mi vedevo, ma come mi sentivo. Farmi vedere davvero significava far entrare qualcuno in questa testolina. Cosa c’è dentro?

Immaginate una casa degli orrori. Su una collina isolata, con un portone di legno pesante. La aprite e questa scricchiola. Un gran presagio di cosa vi aspetta all’interno.

Orrore. Tele di ragno che coprono i soffitti. Polvere di anni e anni accumulata su vecchi mobili rotti. Le finestre sbarrate da assi di legno sbilenche. È buio. È umido. Se osi avventurarti potresti scoprire i mostri che la abitano. Sembra una casa per vampiri. Bare, ratti, scolopendre, scorpioni, tutto questo può essere lì dentro.

Non vorreste entrare. Ve lo garantisco. Anche perché i miei pochi ex fidanzati, quelli che ci tenevano tanto a vederla, sono scappati urlando non appena il grosso portone ha scricchiolato.

Ecco cosa sono io.

Un giardino radioso con al centro la casa degli orrori.

Venite signore e signori, venite a vedere la bravura di Gaia nei giochi di prestigio.

Tutto andrà bene e non vedrete mai altro.

Lacrime? È magia signori, mai una lacrima ha sfiorato questo viso.

Cuori infranti? Nossignori, ecco, un sorriso! Ed il coniglio esce dal cilindro.

Un penny per scoprire i segreti della maga Gaia, signore e signori.

 

Questo perché i miei genitori mi avevano ficcato in testa che al mondo andava ridato solo ciò che avevo di positivo da dare.

Le cose brutte vanno taciute. I panni sporchi lavati in casa, o, anzi, meglio se li tieni per te e basta.

C’era la gioia per la vita. Ma immancabilmente qualcosa di nuovo entrava nella casa degli orrori. Una vipera, una boccetta di veleno, altra polvere, clessidre rotte… Facevo questo gioco da piccola, davo un nome a ogni cosa che non mi piaceva o che dovevo tacere, la immaginavo come un oggetto e la ammonticchiavo in un ripostiglio mentale.

E dall’accumularsi nel ripostiglio, eccolo oggi divenuto delle dimensioni di una casa intera. Potrei strillare gli annunci come ai baracconi: Venghino signori, dalle nove a mezzanotte, la casa degli orrori è sempre aperta. Ci credete che un tempo fosse solo un portascope? Ora, grazie a Gaia, potete vedere l’immensità della paura. Godere di ansie e angosce. Cattivi pensieri. Brutti ricordi. Il tutto al prezzo di un solo biglietto. Venghino signore e signori! Venghino!

Al nuovo accadimento non avevo ancora dato una forma.

Era grosso. Potenzialmente distruttivo.

Lo figurai non appena sentii nella mia mente lo scricchiolare dell’enorme portone di legno.

L’accadimento prese la forma di un pianoforte. Rotto, ovviamente, con i tasti che suonavano accordi stonati. Gli mancavano parecchi tasti neri ed un piede era zoppo. Lo posizionai in mansarda. Pesava troppo. Ruppe le assi di legno della mansarda. Il pianoforte rimase lì in bilico, a metà tra la mansarda ed il secondo piano. L’equilibrio era precario. Si sarebbe schiantato al secondo piano rompendo anche quel pavimento? O sarebbe rimasto lì a minacciare di schiantarsi senza farlo? Forse dovevo semplicemente rifare i bagagli ed andarmene, da questa casa, da questo lavoro o forse proprio da questa città.

Tre puntini. Ecco cosa risposi a Tom.

Poi gli chiesi di vederci.

Attraverso i suoi occhi pensai che, forse, quel pianoforte si sarebbe stabilizzato in mansarda. Sul pari. Sarebbe stato solo pesante. Ma sotto il suo sguardo sarebbe diventato sostenibile… Magari non avrei dovuto impacchettare tutto un’altra volta ed andarmene, come una gitana. Magari mi avrebbe ispirato per resistere e non cambiare vita, come al solito. Come ogni volta in cui il peso del mio tacere creava un nuovo mostro per la casa.

Andai nel suo paesino tra le montagne trentine. Amavo quel tragitto in macchina. L’abbandonare Milano per perdermi nelle verdi valli che avevano come sfondo le montagne. L’aria era buona quassù. La casa degli orrori pareva ridurre le sue dimensioni davanti alla magnificenza delle alpi che mi circondavano.

 

Prima di incontrarci per l’aperitivo andai nella piazzetta del paese. C’era quella statua di pietra bianca al centro della fontana. Era una donna con una cornucopia da cui sgorgava l’acqua. Il corno aveva un bordo lucidissimo, nettamente in contrasto con il resto della superficie ingrigita dalle intemperie, dicevano che strofinarci la mano portasse fortuna. La accarezzai. Ai piedi dell’ancella di pietra c’era un tappeto di monetine immerso nel cerchio d’acqua, era buona cosa esprimere un desiderio e donare alla fortuna una moneta. Presi cinquanta centesimi. Chiusi gli occhi e li strinsi. Espressi il desiderio e lasciai cadere la moneta nell’acqua, fece un leggero plic. Aprii gli occhi. Infilai le mani nel parka e mi incamminai verso il bar.

Sì, mi guardava ancora in quel modo. Vorrei vedermi anche io così, te lo giuro Tom, è balsamo su di me quello sguardo. E mi tornavano in mente quelle parole. “Si ferma l’orologio. Dovresti vedere il modo in cui la luce danza nelle tue iridi, un milione di colori di nocciola, oro e rosso riflessi nel vetro”

 

La statua di pietra mi raccontò ogni storia.

Ripresi la moneta d’argento. L’obolo sparì nella mia manica. La ringraziai. Poverina, sarebbe rimasta in quella situazione chissà per quanto ancora. Doveva davvero essermi grata per aver distratto lo scultore mentre progettava il suo bel viso. Sembrava viva, avevano esclamato i popolani. Lo era, ragazzi, lo era. O almeno, sarebbe stata solo pietra se non l’avessero estratta dalla cava. Divenne viva già nel blocco di marmo… ma questa è un’altra storia.

Le sue storie mi interessavano. Come potevano esserci storie interessanti in una valle sperduta tra i monti? Proprio perché non lo sapevo, provavo curiosità. Qui c’era un’aria leggera, libera dai problemi inutili dei cittadini. Loro erano di fretta, loro non credevano più in nulla. Qui invece gli esseri umani riflettevano. E più riflettevano più i loro problemi esulavano dal banale. E anche i loro desideri. Qui non si sentivano i soliti desideri: vincere alla lotteria, sconfiggere il cancro, stop alla guerra… Quelle cose che davvero sanno di banale.

Thomas Weiss e Gaia Lamberti avevano espresso desideri non comuni.

Mi ritrovai con un certo solletico di curiosità. Questo modo di combinare in maniera machiavellica le possibilità mi stimolava l’immaginazione. Lanciai l’obolo d’argento ripensando alle loro richieste. La moneta roteò come al rallentatore, salì in alto ruotando su se stessa più e più volte, tornò giù allo stesso modo finendo nel mio palmo. Era fatta. Accarezzai la guancia dell’angelica dea bendata, «All’anno prossimo mia cara» le dissi. Infilai le mani nelle tasche dei pantaloni del completo nero e la lasciai sola.

 

Caro Valerio,

Ti racconterò tutto. Tutto. E spero così di fare chiarezza anche nella mia testa mettendo queste parole sulla carta…

Vorrei vedermi coi tuoi occhi

Gaia mi scrisse dal nulla questo messaggio.

Ci vediamo quattro volte all’anno e ci sentiamo solo lo stretto indispensabile per accordarci su dove e quando. Tranne quando la chiamavo, raramente, per raccontarle qualcosa di importante.

Parlavo solo con lei. E ovviamente con te, amico mio.

Persino mia moglie mi rinfacciava il silenzio. Non sapeva che con Gaia parlavo. Non lo sapeva nessuno. Era noto solo che fossimo amici di vecchia data, quello che sapevi anche tu fino ad adesso.

Le mie emozioni, i miei pensieri, sono qualcosa da tenere in cassaforte e seppellire. Finché non raggiungono un livello esplosivo e allora rovino tutto.

Ti immagino annuire mentre leggi questa sbrodolata di parole.

Perché parlo con Gaia e non con mia moglie?

Perché lei è tutto quello che vorrei essere io. Forte, sicura di sé, impudente e impetuosa. Una forza della natura. Qualcosa che io non sono. Io sono acqua, mi adatto a qualsiasi situazione. Non mi impongo. Non ne ho la forza. Vado avanti come un canale, continuo a scorrere negli spazi predisposti da altri.

Quando parlavo con Gaia il mio mondo si apriva. Non vedevo più il mio paesino incassato tra i colli trentini, la casa con mia moglie e i miei figli, il mio lavoro in amministrazione. Gaia apriva infinite possibilità. Mi incoraggiava a cambiare ciò che non mi piaceva.

Non ci riuscivo mai.

Ma amavo follemente quei quattro incontri in cui mi portava fuori dalla realtà. Nel suo mondo. Nei me che sarei potuto diventare. O essere.

Capisci quindi che quel suo messaggio: Vorrei vedermi coi tuoi occhi mi allarmò.

Gaia era forte.

Non aveva bisogno di me, era a me che mancava l’aria in sua assenza. Perché non ho sposato lei, ti chiederai. Sappi che mi dispiace averti detto così poco di lei. Ma era una cosa mia, non certo sfiducia nei tuoi confronti.

Perché non ho sposato lei… Me lo chiedo anche io.

Negli anni me lo sono chiesto tante volte. Ogni volta arrabattando una scusa diversa.

In verità credo semplicemente di non essere alla sua altezza. O di non meritarla. Queste le ultime scuse che mi sono venute in mente quest’anno.

In ogni caso, il messaggio era strano. Ci pensai tutto il pomeriggio a lavoro, tra un foglio excel e l’altro. Mi martellava in testa. Tornai a casa. Spensi la macchina in fondo al vialetto e non scesi. Volevo concentrarmi nella mia solitudine prima di essere travolto da tavole da apparecchiare e due monelli con cui giocare.

Risposi a Gaia: Come ti vedi? non riuscii a mettere insieme niente di meglio.

Mi sentivo un ragazzino, proprio come quando l’ho conosciuta. Avevo paura di dire la cosa sbagliata, mi sudavano le mani e balbettavo. Ora ho trentacinque anni, due figli, eppure mi prende ancora quella sensazione. Come se potessi sbagliare, come se ci fossero cose giuste da dire.

Rispose subito:

“…”

Stava ancora scrivendo. Attesi in macchina il secondo messaggio.

“Ci vediamo la prossima settimana?”

Non aveva risposto.

Ci mettemmo d’accordo.

Sabato.” Dopo la partita di calcio di mio figlio maggiore avremmo fatto aperitivo soli. Dopodiché sarebbe venuta a cena da noi. Poi avrebbe dormito nel solito B&B vicino alle mura. Una colazione/pranzo solo io e lei e poi sarebbe ripartita per Milano affrontando le nuvole basse della domenica pomeriggio.

 

«Cosa non va?» le chiesi dopo aver pagato i due calici di vino. Uscimmo dal bar vicino a casa. La serata era illuminata solo da tre lampioni in fila. Come quei tre puntini che mi avevano stretto lo stomaco in una morsa sospesa.

Pensa a che potere può avere una non risposta.

«Qui è buio, Thomas.» mi rispose fermandosi. Un velo bagnato le coprì gli occhi. Aveva le mani infilate in fondo alle tasche del parka e un sorriso triste. Il vento le arruffò i capelli rendendola una visione ancora più fragile.

Volevo dirle che non era vero. Volevo dirle quanto significava per me. La guardai e basta con tutto l’amore che avevo.

«Vedi. Così. Ho bisogno che tu mi guardi così. Come se valessi qualcosa.»

Alzai un sopracciglio.

«Per te rimango perfetta. Nonostante i miei casini.»

La abbracciai.

«Riesci a risolvere tutto.» le dissi tenendola stretta.

«Stavolta è diverso. Non so se ce la faccio. Sono stanca.»

Non voglio scriverti quali fossero i suoi problemi. Ma voglio dirti cosa suscitarono in me. Nella sua complessità e nel suo caos era fatta di luce pura.

Quel chiarore si stava spegnendo.

Nei tre punti della sua non risposta c’era tutto quel buio.

Per una volta, una volta sola in tutta la mia vita, le dissi tutto quello che pensavo di lei. Non la guardai e basta. Anche se aveva sempre detto che per lei fosse abbastanza per capire che le volevo bene. Glielo dissi. Credo sia stata la sua momentanea fragilità a darmene la forza.

Le dissi ciò che significava lei per me:

Aria.

Non credo se l’aspettasse. Parlai solo io per cinque minuti di fila. Senza sudare. Senza balbettare. Le parole esplosero.

Quella sera stessa, amico mio, non tornai a casa e non andai da Gaia. Presi una camera in ostello e pensai.

Non ho mai tradito mia moglie.

Ma non ho mai amato nessuno come Gaia.

È tempo che io decida cosa voglio fare della mia vita.

Mia moglie, santa donna, era il percorso predisposto. Piaceva a tutti a casa, abitava nella strada accanto. In questo piccolo paese non si va a cercare l’amore da lontano. Mio padre mi aveva sollecitato più volte a “sistemarmi”. Era la scelta facile. Metteva contenti tutti.

Gaia è un’anomalia radiosa. È entrata in maniera irruenta nella mia vita senza che lo volesse.

Ora però, ora che sono solo, ora che penso. Cosa dovrei fare?

Gaia vuole vedersi coi miei occhi.

Io vorrei diventare uno dei suoi mondi.

E vorrei essere io a deciderlo.

Certo, lasciare mia moglie, i miei figli… Oh, se avessi trovato questo coraggio prima, amico mio. Magari non sarebbe andata così. Magari sarebbe già lei mia moglie…

Mia moglie, a quella santa donna le si spezzerebbe il cuore. Poi così a ciel sereno…

Mi dispiace. Mi dispiace tantissimo.

Al contempo sono stanco, sono stremato da questo vivere scorrendo in un misero canale. Dove tutto è preimpostato. Tutto è predisposto. In questo paesino sai che nascerai e morirai seguendo un programma già scritto per te. Tu sei andato via, sei tra i pochi che ne ha avuto il coraggio, e non sei mai tornato.

Tu hai avuto il coraggio di scegliere. Sei uscito da questo stagno.

Scrivendoti sto facendo chiarezza nella mia mente. Perdona le mie parole, credo di aver sbagliato come non mai in italiano, ma sento i dubbi sciogliersi.

Voglio farti un’ultima confidenza. Non prendermi per pazzo, ma credo di sapere come questo “leone” abbia finalmente trovato il coraggio, quello per dire tutto a Gaia.

Sai che sono stato così sciocco da passare per la fontana della piazza prima di incontrarla in aperitivo? Sì, proprio lì, dove passavamo i pomeriggi a giocare a pallone e a sfottere chi lanciava le monete lì dalla statua della fontana cercando di esaudire desideri. E sai che ho fatto? Ci ho lanciato due euro. Sono diventato come quelli che sfottevamo. Che pessima cosa crescere…

Solo che, in modo assai strano, credo che quel desiderio sia diventato una profezia autorealizzante. Se desideri cambiare la tua vita a volte non devi fare altro che farlo.

Sembra tutto semplice detto così.

Da una mente malata come la mia poi che invece di semplificare: complica, complica e tace finché non va tutto in malora.

Bene amico mio, penso di aver deciso.

Per la prima volta il fiume uscirà dal suo letto.

Sarà orribile. Ci saranno fango, feriti, detriti e case distrutte.

Ho capito una cosa però, ed è per questo che ti scrivo invece di dirtelo al telefono, voglio che rimanga così, nero su bianco sulla carta:

 

L’acqua può decidere il suo corso.

 

A presto,

Tom

 

Successero cose strane quella sera. Molto strane. Per la prima volta Tom espresse sentimenti. Li conoscevo già, quello sguardo me li suggeriva. Ma mi ha sorpreso. Avevano una forma adesso, uno spessore.

Ma un’altra cosa mi stupì, forse ancora di più: quando rientrai al B&B mi guardai nello specchio all’ingresso della stanza. E non vidi me.

Cioè, sì, mi riconobbi. Ma non ero io.

Quella Gaia era bella.

Era luminosa.

Quella Gaia, signori, amici, circensi, non ero io.

Non era nemmeno l’idea di gitana circense che credevo di dare. Apri e chiudi i pacchi, vattene e cambia invece che aggiustare!

Era luce. Luce purissima. Come aria sulle dolomiti.

Mi prese il panico.

Ricercai la casa degli orrori. Era lì che avevo accumulato la mia vita.

Solo prati fioriti.

Distolsi lo sguardo dallo specchio. Guardai la finestra. Era buio, ma la luna illuminava le creste delle alpi. Le vedevo e le riconoscevo come se emanassero sapore di casa, non lo stupore con cui le fissavo di solito.

Quegli occhi non erano i miei. Quello sguardo non era vero. Non era mio. Dov’era il maledetto pianoforte in equilibrio precario? Dove era la tetra oscurità della mia mente orrorifica? Non la vedevo.

Continuai a cercarla nella mia mente.

Non era sparita. Era soltanto cambiata.

Aveva qualcosa che la rendeva meno spettrale. Come se, come se potessi sopportarla. Come se non fosse così terribile. Come se fosse entrato uno spiraglio di luce.

Rimaneva comunque la mia casa degli orrori. Un luogo conosciuto, confortevole per quanto facesse venire i brividi.

Ci misi molto a capirlo. Lo sgomento iniziale mi impietrì.

Io! Io mi stavo davvero guardando con i suoi occhi.

Tom. Tom mi vedeva così!

Una creatura leggiadra. Viva. Che aveva i colori dell’autunno e il sapore della primavera.

E sapete cosa c’è, cari amici saltimbanchi?

Questo spettacolo di magia è tanto piacevole quanto inquietante.

Se venisse a prendermi domattina per andare via insieme, o per tornare a Milano insieme, non penso direi di no.

Penso, forse, che potrei sopportare il peso del pianoforte. Che potrei farcela. Se continuassi ad averlo vicino. Se continuassi a vedermi così.

 

Rimasi in quel paese sperduto un altro po’. Ero incuriosito dagli accadimenti.

Si è compiuto il male o il bene?

Entrambi.

Saranno loro a renderlo bene o male.

Lasciare figli e famiglia è male? Aiutare la donna che si ama e starle accanto è bene? Vedersi con occhi consapevoli e abbandonare le insicurezze è bene. Dimenticare paure e angosce apre le porte all’amico narcisismo, e quello è un bel rischio, più che il male.

La vita è un boccone dolce e salato. Si può avere tutto. Gaia poteva morire in macchina nel viaggio di ritorno, Thomas avere rimpianti per il resto della vita. Thomas poteva non trovare mai il coraggio di lasciare la sua casa, vivendo la sua vita solo nell’ipotesi. Certo, potevano mancargli la prole, la moglie, la casa nella vallata. Gaia poteva tradirlo, armata della sua nuova sicurezza, poteva non avere più bisogno di lui ora che aveva ciò che voleva. Potevano anche convivere con tutto questo. Tacere e portare la loro relazione nel buio dei non detti. Potevano odiarsi.

Oppure, esisteva la possibilità, per quanto sottile, che i due potessero scegliere di essere felici e impegnarsi ogni giorno.

Come andò la loro storia?

Chiedetelo alla statua del paese.

Un’angelica scultura in marmo, di una bellezza sconcertante, un fiore all’occhiello a cui quel paesino si era abituato. Marmo bianco, uscito dalla pietra e diventato splendore. All’interno sembrava esserci un’anima. La dea non bendata, destinata al silenzio e all’immobilità per sempre. Eppure, quegli occhi sembrano vivi e la sua bellezza continua a essere fonte di sospiri per i passanti.

«Sì, mi sono attardato fino alla mattina…» passai la mano sulla sua cornucopia «è ora di rompere ogni indugio, devo andare.» salutai la statua con un cenno del capo. Avrei rivisto quello splendore l’anno successivo. L’aria del mattino sarebbe stata frizzante, come lo è adesso, e la brina avrebbe tempestato di scintillii i fili d’erba ai bordi della piazza. La statua mi avrebbe aspettato eternamente viva ed eternamente immobile.

 

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